Sono sempre le donne ad accudire le memorie. Mimily Wilmot Caldesi alla fine degli anni Sessanta dell’Ottocento raccolse in un prezioso album le sue fotografie nel formato carte de visite che in epoca vittoriana andava molto di moda. Dopo il 1854, grazie all’affinamento della tecnica fotografica, le persone delle classi abbienti cominciarono a scambiarsi, in sostituzione o in aggiunta ai semplici biglietti da visita, copie dei propri ritratti in piccolo formato. Le cartes de visite sono state la prima produzione seriale di immagini. Mentre i dagherrotipi erano pezzi unici, come i calotipi e gli ambrotipi che spianarono la strada alla stampa su carta, con il procedimento al collodio inventato da F. S. Archer nel 1851 e con la tecnica del negativo su vetro diventò possibile riprodurre in positivo più immagini. Tre anni dopo il parigino A. A. E. Disdéri brevettò il metodo per ottenere, con una sola seduta fotografica, otto diverse immagini su una sola lastra. Così le fotografie, che quando erano pezzi singoli venivano appese e incorniciate come quadri, ora potevano circolare e, come le cartes de visite di Mimily Wilmot Caldesi, finire dentro album con pagine a finestrella. L’album di questa signora londinese è stato trovato in un baule di legno con zampe di leone, in una villa di Bologna immersa in un grande parco, appena fuori dal centro storico. Le fotografie, stampate su carta all’albumina e montate su cartoncino, sono state realizzate dal marito di Mimily Wilmot, il fotografo Leonida Caldesi, che quella villa comprò nel 1871 dopo essere definitivamente rientrato da Londra. Nel baule c’è un altro album più piccolo, pieno di immagini su carta all’albumina, appartenuto allo stesso fotografo.
Sfogliando questo atlante familiare, si resta sorpresi di riconoscere, tra i numerosi ritratti di sconosciuti benestanti della Londra vittoriana e degli uomini e donne più in vista di Bologna, anche quelli della Regina Vittoria, della Royal Family, di Garibaldi, Mazzini, Napoleone III. Ci facciamo allora raccontare dai discendenti di Leonida Caldesi, che morì proprio in questa grande dimora affacciata sui colli nel 1891, la storia del loro avo. Una storia che s’intreccia con quella del suo più famoso fratello, Vincenzo Caldesi, uno dei protagonisti del Risorgimento, la cui casacca rossa di colonnello garibaldino è conservata, con il berretto e lo spadino, presso il Museo del Risorgimento di Bologna.
I Caldesi erano una famiglia di possidenti terrieri di Faenza. Il nonno dei due fratelli, pure lui di nome Vincenzo, era un giacobino mangiapreti. Il 20 giugno 1796 partì in delegazione da Faenza per rendere omaggio a Napoleone Bonaparte che faceva il suo trionfale ingresso a Bologna. L’avversione per il regime papalino, molto diffusa in Romagna, contagiò, più che suo figlio Clemente, scenografo di orientamento liberale, i due figli di questi, Vincenzo, nato nel 1817, e Leonida, nato nel 1822. Come il nonno, di cui portava il nome, Vincenzo fu, dei due fratelli, quello con la vocazione politica più forte. Anticlericale e repubblicano, mazziniano convinto, cominciò giovanissimo a partecipare alle cospirazioni patriottiche. Nel 1849 Vincenzo Caldesi è deputato all’Assemblea costituente romana e membro della Commissione delle barricate durante la difesa di Roma. Fallita l’esperienza della Repubblica Romana, i patrioti prendono la via dell’esilio. I fratelli Caldesi raggiungono Genova via piroscafo; da lì proseguono, insieme con il romano Mattia Montecchi e altri, per la Svizzera, dove si ricongiungono con Mazzini e Saffi. Nel dicembre 1851 Vincenzo e Leonida combattono sulle barricate a Parigi per protestare contro il colpo di Stato di Napoleone III. Nei primi mesi del 1852 riparano a Londra, dove già si trovava Mazzini.
Nella capitale inglese bisogna inventarsi qualcosa per sbarcare il lunario. Benché provvisti di mezzi, diversamente dagli altri patrioti in esilio, i due Caldesi aprono, in collaborazione con Montecchi, un atelier di fotografia, che a Vincenzo serve probabilmente come copertura alla sua attività politica. La molla dell’iniziativa sembra sia stato il dono a Leonida di un apparecchio fotografico da parte del famoso tenore Mario De Candia, che voleva contribuire alla causa patriottica e già ospitava Montecchi.
A quel tempo, la fotografia era quasi ancora un prodigio chimico su cui si concentrava la ricerca tecnologica. Con il passaggio dal dagherrotipo alla stampa dell’immagine su carta, si diffonde la moda del ritratto. Nascono numerosi gabinetti fotografici che impiegano personale: chi prepara le lastre, chi le porta al fotografo, chi le sviluppa, chi mette in posa i clienti. Lo studio L. Caldesi & Co. (o Caldesi & Montecchi, come appare nel 1858-59, o Caldesi, Blandford & Co. nel 1861-62) diventa uno dei più importanti di Londra. Fa profitti con i ritratti per le cartes de visite, ha rapporti con la Royal Family e – grazie alla sua specializzazione nella riproduzione fotografica delle opere d’arte - con le tre maggiori collezioni d’arte pubbliche, la National Gallery, il British Museum e il South Kensington Museum.
Nell’atelier di Leonida Caldesi situato in Porchester Terrace, Bayswater, attivo già dal 1855, trovano lavoro diversi esuli italiani. Oltre a Mattia Montecchi, che per un po’ è anche socio, ricordiamo il romagnolo di Faenza Domenico Lama, il fotografo preferito da Mazzini, poi fondatore della Association of Mutual Progress dei lavoratori italiani a Londra, e il giovanissimo riminese Amilcare Cipriani, noto per aver rimproverato la regina Vittoria perché non stava ferma durante una posa. Parte dei proventi del gabinetto fotografico è utilizzata per sostenere gli emigrati italiani e la causa nazionale, nonostante già dal 1853 i rapporti tra Mazzini e i Caldesi si siano incrinati. Questi, infatti, si rifiutano di partecipare alla raccolta fondi sollecitata da Mazzini, che accusano di “avventurismo”, e preferiscono radunare intorno al loro atelier patrioti e artisti, soprattutto di teatro, meno intransigenti rispetto all’ortodossia mazziniana.
Un grande aiuto all’atelier viene da un altro esule illustre, il reggiano Antonio Panizzi, patriota della prima ora e cittadino inglese dal 1832. Nominato direttore nel 1856 della British Museum Library, che sotto la sua guida diventerà la più grande biblioteca del mondo, Panizzi procura a Caldesi & Montecchi l’incarico di fotografare i celebri cartoni di Raffaello in Hampton Court. Le fotografie sono esposte in mostra alla Photographic Society nel 1858 e pubblicate dal più importante editore e mercante d’arte di Londra, P & D Colnaghi, di origine italiana, che già aveva pubblicato le fotografie dei dipinti della Art Treasures Exhibition, la grande mostra tenutasi a Manchester nel 1857. Caldesi si specializza nella riproduzione delle opere d’arte e Colnaghi, che vanta tra i suoi clienti la famiglia reale, gli affitta nella centralissima Pall Mall i locali per una succursale del laboratorio fotografico.
Quando scoppia la moda dell’album fotografico, dove prendono posto i ritratti di famiglia, a Londra cominciano a circolare i ritratti ufficiali dei reali e dei personaggi famosi. La ditta Caldesi & Co. non si fa trovare impreparata. Nelle collezioni della National Portrait Gallery, visibili anche sul sitowww.npg.org.uk, sono conservate 52 fotografie di Leonida Caldesi stampate su carta all’albumina che ritraggono nei primi anni Sessanta i vip del periodo vittoriano, da Sir Charles Lock Eastlake, direttore della National Gallery, alla baronessa Susan North, vecchia e – sembra - affaticata dalla durata della seduta di posa, dallo scrittore ed esteta John Ruskin che guarda nel vuoto, al vice cancelliere dell’Alta Corte di giustizia Sir Richard Malins, che posa tutto soddisfatto di sé. L’apice del successo è raggiunto da Leonida nel 1857, quando lui e il suo socio Montecchi sono convocati sull’isola di Wight per fotografare la Royal Family. Sulla terrazza di Osborne House, la regina Vittoria e il principe consorte Alberto esibiscono i loro nove figli in un sereno quadretto familiare.
Nel 1859 la granduchessa Maria di Russia commissiona a Caldesi la riproduzione fotografica dei marmi del Partenone nel British Museum. Nel 1860, sempre grazie ai buoni auspici di Panizzi, viene realizzata una campagna fotografica nella National Gallery. Ne seguirà un’altra per conto del direttore Sir William Boxall. Caldesi lavora anche per collezioni d’arte private come Farnley Hall: nel 1864 Colnaghi pubblica le sue riproduzioni dei disegni di Turner. Nello stesso anno escono in formato carta da visita i ritratti di Garibaldi e Mazzini. Sempre per Colnaghi fa duecento stampe in albumina dei ritratti dei Tudor.
Vincenzo Caldesi, intanto, se n’è già andato da Londra, richiamato in Italia, come Montecchi, dalle vicende della seconda guerra d’Indipendenza nel 1859. In quell’anno parte anche Mazzini, come la maggior parte degli esuli. Mentre Vincenzo combatte come colonnello garibaldino le battaglie per l’indipendenza d’Italia, Leonida a Londra cura gli affari per il suo atelier. Nel 1863 sposa Mimily Wilmot e solo intorno al 1867 torna a Bologna, dove nel 1871 acquista la villa ai piedi della collina di San Michele in Bosco in cui morirà nel 1891. In questa dimora ottocentesca, sfogliamo l’album di Mimily con le foto del padre di lei, Charles Foley Wilmot, della madre francese, Joséphine Pasteur, delle due figlie avute da Leonida, Maria Beatrice, morta a 18 anni, e Giulia detta Lina. Da quest’ultima ha inizio il ramo familiare che porta fino alla signora Arabella Franchi, che custodisce nella sua casa un pezzo di storia del Risorgimento e della Londra del periodo vittoriano.
Fonte: Materiale prodotto all'interno del progetto culturale "Casa della memoria dell'emigrazione dell'Emilia-Romagna" promosso dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo e realizzato in seguito alla richiesta dei giovani corregionali nella Conferenza di Buenos Aires del 2007.