Nell'esistenza di un uomo ci possono essere improvvise cesure, tagli dolorosi. A nemmeno dodici anni John Carafoli sfugge a un incendio in cui muoiono la madre, la nonna materna e un fratello. Da allora la sua esistenza si divide tra un prima e un dopo l’incendio. Il dopo, comincia con gli amici dei genitori che si occupano di lui. Le donne del vicinato se lo prendono in casa, e il piccolo John trascorre insieme con il fratellino, dopo la scuola, intere ore nelle cucine, a guardarle e ad aiutarle. Il cibo, la gastronomia, e l’immagine legata ad essi, diventeranno l’oggetto della sua professione. Ma è tutto quanto precede l’incendio a cercare John a un certo punto della sua vita, a chiamarlo quando è già un professionista affermato.
Prima dell’incendio, c’è la storia della sua famiglia: una storia di emigrazione che inizia in Emilia-Romagna, in un luogo chiamato Renazzo, al confine tra la provincia di Ferrara e quella di Bologna, negli anni che precedono il primo conflitto mondiale. Le vicende familiari si inseriscono naturalmente nel flusso della storia, incrociando quelle di migliaia di altre famiglie arrivate nel Massachusetts dall’Europa e dall’Italia per lavorare alla costruzione di un canale tra Cape Cod Bay e Buzzards Bay, là dove il capo si unisce alla terraferma. Il progetto, avviato intorno al 1910, mirava ad aprire una via d’acqua più breve per Boston lungo la costa atlantica americana. Terminato il canale, moltissimi lavoratori edili italiani decisero di restare nella zona di Sagamore e Sandwich in Massachusetts, perché potevano trovare occupazione presso una grande impresa locale che fabbricava vagoni ferroviari. Tra questi, anche i Carafoli.
Emigrato di terza generazione, John abbandona, una volta cresciuto, il villaggio italiano di Sagamore. Quando rientra in Massachusetts, è per studiare cucina a Boston presso la scuola Madeleine Kamman, perché ormai gli è chiara la sua vocazione: la cucina è la sua terapia, la sua memoria, il modo per colmare il vuoto degli affetti familiari lasciato dall’incendio. Oggi John Carafoli è un food stylist che lavora per marchi come Pepsi Cola, Smirnoff Vodka, Stella Artois, Danone, scrive libri di cucina per bambini e articoli per riviste di gastronomia, crea ricette per magazine aziendali e di consumatori, ha insegnato food styling alla New York University, diretto il New Choices Magazine, e fa tante altre cose ancora, come la rubrica Cooking with Carafoli sul Cape Cod Times. E' diventato poi copresidente della terza conferenza internazionale sul food design e la fotografia che si è svolta alla Boston University. Tutto questo ha un’origine: la cucina delle donne della comunità italiana; la cucina in senso fisico, dove ha imparato a preparare i cibi.
“Raramente – dice – le donne scrivevano una ricetta. Per loro era tutto secondo natura. E’ solo un caso che un bambino fosse nei paraggi, un bambino con un disperato bisogno di ricordare. Ho assorbito il loro modo di mettere insieme qualsiasi piatto senza ricette”.
Per ricordare meglio, John capisce che deve imparare l’italiano. Inizia a studiarlo nel tempo libero “per non essere tagliato fuori dalla memoria del villaggio e dall'esperienza dei Carafoli che sbarcarono in America”. Le radici cominciano a parlargli come un libro aperto, nel quale si legge che nel villaggio di Sagamore gli italiani usavano una lingua ibrida costituita da parole dei diversi dialetti, che creavano orti e frutteti per avere gli ingredienti delle colture d’origine compatibili con il nuovo clima, e che la cucina era un insieme di ricordi e nuove invenzioni.
Oggi Cape Cod è noto per il museo delle balene e le colonie d’artisti. I turisti non sanno che cento anni fa il centro della vita cittadina era il Louis Market, dove una comunità di braccianti e operai, in larga parte italiani, si riforniva di pasta, olio d’oliva e formaggi. Il Louis Market – racconta Carafoli – aveva il forno per il pane: ne usciva un pane a quattro punte a forma di corna che era chiamato horn bread. Dopo la chiusura del forno del Louis Market, la gente di Sagamore, affezionata al “pane con le corna”, lo importa da un forno di Plymouth. Carafoli era certo che questo pane, unico nel New England, dovesse avere un glorioso passato, e si reca quindi a Plymouth per parlare col fornaio, ormai troppo anziano per essere d’aiuto, e con la più giovane fornaia, del tutto ignara della storia di questo pane. Quando, imparato bene l’italiano, John arriva per la prima volta in Emilia-Romagna, si mette alla ricerca del pane dei suoi nonni, e lo trova – come qualcuno gli aveva indicato – nella zona tra Ferrara, Modena e Bologna, dove si produce ancora. E’ la famosa “coppia” ferrarese: la forma è un po’ diversa, l’impasto è un po’ più secco rispetto a quello del New England, ma è lei, la “ciupèta” in dialetto ferrarese, che la sua famiglia mangiava a Renazzo prima di emigrare. Un pane dalla lunga storia, che già nel 1278 i legislatori ferraresi ordinavano ai fornai di fare in quel modo, e che lo scrittore Riccardo Bacchelli definì “il migliore al mondo”.
“Ho la sensazione – dice Carafoli – che ogni viaggio mi aiuti a riprendermi da una sorta di amnesia”.
Si ricorda, così, di un anziano prozio che con la moglie andava ogni tanto a far visita alla sua famiglia ed era un cuoco professionista in Connecticut. Il piccolo John lo conosce come “zio Carabing”. Il suo vero nome a distanza di decenni l’ha trovato inciso sulla lapide del cimitero di Renazzo: Cherubino Carafoli, che il suo orecchio da bambino aveva trasformato in Carabing. Allo stesso modo, quando in un ristorante di Ferrara si trova a mangiare salsiccia con purè di patate, gli viene in mente un piatto simile di zia Maria, e gli compaiono davanti, come in un meraviglioso sogno profumato, i piatti delle donne che l’hanno accudito ricomponendo inconsapevolmente la frattura della sua vita: i ravioli con ragù alla bolognese di Rose Sorenti, la polenta con stufato di coniglio di Alba Papi, i funghi selvatici di Rosina Boffetti – forse troppo raffinati per un palato americano, ma non per quello di John Carafoli, che grazie alla cucina degli avi è diventato un professionista dell’alimentazione.
Fonte: Materiale prodotto all'interno del progetto culturale "Casa della memoria dell'emigrazione dell'Emilia-Romagna" promosso dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo e realizzato in seguito alla richiesta dei giovani corregionali nella Conferenza di Buenos Aires del 2007.