Gli emigrati italiani in Argentina sono tanti, e di conseguenza tante sono le storie. Tutte queste persone, comunque, sembrano avere provato più o meno le stesse emozioni, e sperimentato le stesse illusioni e delusioni quando la nave Eugenio C arrivò nel porto di Buenos Aires.
E poi, gli italiani portano le tradizioni come un secondo abito, ovunque vadano. Anche se ciò comporta superare le difficoltà che trovano oltre l’oceano dell’emigrazione.
Mia mamma è nata in provincia di Forlì, nel piccolo paese di Sogliano al Rubicone. Quando aveva quindici anni suo papà decise di fare partire tutti per un paese sconosciuto del Sud America, chiamato Argentina. La guerra non aveva reso la vita facile e negli anni successivi diventava ogni giorno più arduo allevare le tre figlie piccole. Le promesse al di là dell’Atlantico erano grandi. Fu così che arrivarono a Buenos Aires e, superate le prime grandi difficoltà giunsero ad apprezzare la loro nuova terra, sistemandosi per bene. Mia mamma a sua volta ha creato la sua famiglia in Argentina, abituando tutti noi alla cucina romagnola, forse per evitare la nostalgia, forse per cercare di coabitare con essa.
Il piatto che più le mancava erano i passatelli. Per produrli è stato necessario ottenere tutti gli attrezzi. Prima di tutto, il brodo; quando lo faceva mia nonna semplicemente prendeva una gallina dell’orto, perché vivevano nei dintorni di Buenos Aires e avevano i propri animali e verdure. Ma mia mamma non aveva la gallina a portata di mano, perché dopo sposata era andata a vivere in città, dove ciò non era possibile. Allora quando decideva di cucinare questo piatto, faceva il "brodo" finto con il dado… niente a che vedere con la qualità originale, ma almeno era qualcosa simile!
Fare la massa dei passatelli non dava alcun problema- semplicemente uova, farina, grattugia di limone ed erano pronti per essere tagliati. Ma con che cosa? Serviva l’apposito attrezzo circolare fatto in lamiera con dei buchini e delle maniglie, come avevano in Romagna, per passarlo sulla massa. Ovviamente nelle ferramenta di Buenos Aires non si trovava… occorreva fabbricarlo. A questo compito ci ha pensato il nonno forlivese, chi meglio di lui?
Una volta a tavola, il piatto tipico diventava la curiosità degli amici locali, e la delizia di marito, figli e nipoti che erano oramai abituati al sapore e al profumo, gli stessi che riportavano a mia mamma il ricordo dei verdi colli e del sole romagnolo.
A raccontare questa storia sono io, la figlia di Germana Fabbri, che è originaria di Sogliano sul Rubicone, provincia di Forlì. Quando lei a quindici anni, assieme a due sorelle più piccole e alla loro mamma, cioè mia nonna Dalmina, è dovuta partire dal suo paese, tanti erano i dubbi e allo stesso tempo le speranze riguardo a un lontano paese sconosciuto del Sud America. La decisione era stata presa da mio nonno Claudio qualche anno prima. Il dopoguerra era difficile e anche la guerra non era stata facile, con tre figlie piccole da allevare. Tutto sommato sembrava che l’orizzonte promettente si trovasse oltre l’Italia. Storie di emigrati precedenti confermavano questa idea, come pure i convegni tra gli Stati favorevoli agli immigranti, quale quello del presidente Perón, che permetteva di unire i contributi lavorativi italiani a quelli da versare in futuro in Argentina, in modo che i primi non venissero persi. L’America era tutta da costruire e le promesse erano grandi. Fu così che nonno Fabbri partì per l´Argentina e dopo qualche tempo chiamò il resto della famiglia a raggiungerlo.
La nave Eugenio C sembrava grandiosa e imponente al porto di Genova. I bagagli erano tanti ma appena sufficienti per incominciare una nuova vita oltre l’oceano. Mia madre portava addosso un’acquamarina che le aveva regalato il suo ragazzo come ricordo. Ancora oggi la porta come ciondolo!
Germana, che allora aveva quindici anni, non dimenticherà mai la fermata in Brasile. Dopo anni di scarsità e disagi, trovarono tante banane! Gialle, grandi, caschi e caschi di banane che non finivano mai! Finalmente arrivarono al porto di Buenos Aires. La prima emozione provata è stata la delusione. Il paesaggio sembrava troppo piatto, con l’acqua "color leone" (caratteristica del fiume Rio de la Plata, che porta giù terra e sabbia nel suo percorso), e la città sembrava non avere niente di gradevole alla vista, per l'occhio abituato alle città italiane. Man mano, però, la prima sensazione sarebbe stata superata da altre migliori.
Tempo fa parlavo con un’altra emigrata italiana in Argentina. Mi diceva che l’immagine iniziale del porto è rimasta scolpita lì nella sua mente per sempre: forse questo è il ricordo comune nell'esperienza di emigrare.
Fonte: Testimonianza di Romina Rosso (Buenos Aires - Argentina). Materiale prodotto all'interno del progetto culturale "Casa della memoria dell'emigrazione dell'Emilia-Romagna" promosso dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo e realizzato in seguito alla richiesta dei giovani corregionali nella Conferenza di Buenos Aires del 2007.