"Lei provi solamente a immaginare questa nostra città nell'anno 1896. Arrivavano le navi a vapore portando immigranti con la speranza di crescita. Hanno forgiato loro la storia del nostro paese. Molti sono rimasti a Buenos Aires, alcuni, la minor parte, sono andati al sud; con ammirabile valore sono venuti a lavorare queste terre, ignari di tutto, senza comodità, senza sapere neppure la lingua. Però sono venuti, come, a fare l'America".
Così inizia il suo racconto Pio Ginestri. Di mestiere muratore e di animo musicista, ha imparato musica frequentando il Collegio Salesiano ed ha suonato nella banda della polizia. Con la sua immagine umile, senza dimostrare assolutamente di essere nato esattamente cento anni fa in Italia e con sorprendente lucidità, il signor Eugenio ci ha raccontato la sua storia.
"Viaggiavamo direttamente dall'Italia a Buenos Aires in una grande nave rimanendo circa otto giorni nell'ufficio immigrazione perché a Viedma non veniva nessuno. Dall'ufficio migrazioni, nella Capitale, gli altri presero altre vie mentre noi venimmo a Viedma".
Senza esitare ci ha raccontato che è nato presso la Parrocchia di San Felice, a Montescudo, in provincia di Rimini.
"Ho scelto questo posto - ha commentato il signor Eugenio - perché qui viveva il signor Mauri che era venuto dall'Italia; era molto amico di mio padre e ci disse di venire in America. Quindi siamo venuti direttamente a casa sua finché abbiamo trovato una piccola casa, stanza, cucina e bagno."
Quando gli è stato chiesto come si era sentito all'arrivo in Argentina, ha risposto:
"In confronto a come stavamo noi che soffrivamo la fame, qui era molto meglio. lo ho lavorato in un panificio in Patagonia. Mio fratello presso una bottega, ma a quei tempi c'era ancora il porto e il movimento era diverso. "
"Mio padre lavorava come aiutante muratore", deve esser per questo che poi lui ha continuato la tradizione familiare.
"Quando sono arrivato a Viedma avevo undici anni e qui non c'era niente. Mi ricordo che, siccome non c'era ancora la luce elettrica, per le strade c'erano i lampioni e ogni sera passava ad accenderli il mio padrino, Angel Fabbri, il primo lampionaio di Viedma."
"L'attuale capitale rionegrina "avrà avuto duemila abitanti; non c'era acqua, al gas nemmeno pensarci ..." racconta Eugenio.
" Siamo venuti a fare l'America e realmente non ho niente di male da dire; tutto il contrario, a me è andata molto bene."
"Tutto ciò che la vita ha dato a Viedma, gli è stato dato dal Collegio Salesiano - ha spiegato Eugenio - perché insegnava arte e mestieri per poter lavorare in farmacia, in ospedale, dal calzolaio, in falegnameria, in stamperia e, vicino al collegio, dove ora si trova l'Istituto Don Bosco, c'era una campagna molto grande dove la maggior parte delle persone che lavoravano la terra erano minorenni. Chi non aveva soldi andava per imparare un mestiere, in cambio del suo lavoro. E tutti assieme studiavamo."
Eugenio è musicista perché "nel collegio ci insegnavano anche musica e abbiamo formato una banda. lo suonavo il trombone e la cornetta e con quella banda siamo andati in diversi posti. Poi è nata la banda della polizia dove io ho cominciato a suonare. A quei tempi non c'era cinema, non c'era niente, solo la banda di musica."
Quando gli è stato chiesto se suona ancora Eugenio ha sorriso con i suoi occhi grigi consumati dal passo del tempo e ha detto "No, non più".
Fonte: testo tratto dalla pubblicazione "Lo sguardo altrove..." a cura di Renzo Bonoli e Rocchino Mangeri che accompagna la mostra "Cento anni di emigrazione emiliano-romagnola tra storia e memoria", realizzata con il contributo della Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo