“La canoa descrive una serpentina interminabile sul percorso lento del fiume, accarezzando la foresta lungo le rive inondate…”.
Comincia così il libro di viaggio di Danilo Manera – “Yuruparí. I flauti dell’anaconda celeste” (Feltrinelli, 1999) - sulle tracce di Ermanno Stradelli, il più importante esploratore italiano dell’Amazzonia.
Stradelli è nato nel 1852 a Borgotaro, in provincia di Parma, sette anni prima della morte di un altro grande esploratore e avventuriero proveniente dalla nostra regione, autore dei primi atlanti del Venezuela e della Colombia: Agostino Codazzi da Lugo di Ravenna. Le sue mappe sono diventate le carte geografiche dell’Instituto Geográfico Agustín Codazzi di Bogotà: tuttora il più valido aiuto - riconosce Manera – per districarsi tra gli innumerevoli corsi d’acqua e le improvvise rapide dell’Amazzonia colombiana al confine col Brasile.
Se a spingere il romagnolo Codazzi verso l’America tropicale fu il mito risorgimentale e romantico che lo vide soldato napoleonico, biscazziere a Costantinopoli, corsaro nei Caraibi e infine cartografo nella “Gran Colombia”, l’emiliano Stradelli non sopportava il clima piccolo-borghese e trasformista dell’Italia umbertina. Mentre la sua nobile e agiata famiglia trascorreva lunghi periodi a Piacenza, lui, il conte Ermanno, studiava a Pisa, prima in collegio e poi giurisprudenza all’Università. Ma non si sentiva un uomo di legge: a 25 anni aveva già pubblicato una raccolta di versi dal significativo titolo “Tempo sciupato”, e imparato il portoghese e lo spagnolo. I suoi interessi erano rivolti alle scienze naturali, alla farmacia, alla geografia, alla topografia, alla fotografia: conoscenze che gli potevano tornare utili per fare l’esploratore in Brasile. Il suo sogno divenne realtà nel giugno 1879, quando raggiunse Belém, la porta dell'Amazzonia. Da lì proseguì per Manaus, base di tutte le spedizioni all’interno della foresta. La regione che lo conquistò fu il Vaupés colombiano, un remoto lembo di Amazzonia grande poco più del Piemonte e della Lombardia insieme, dove fortissimo è il fascino della selva. Ancora oggi il Vaupés, abitato da appena 22 mila indigeni, e solo in parte toccato dai fenomeni devastanti dell’estrazione del caucciù, della cocaina e della guerriglia, è una delle zone al mondo con il più alto grado di biodiversità.
Il territorio prende il nome da un affluente del Rio Negro, il quale a sua volta confluisce nel Rio delle Amazzoni. Stradelli lo visitò la prima volta nel 1881 e di nuovo l’anno seguente. Nel 1884 tornò in Italia per terminare gli studi di diritto. Per un po’ esercitò anche la professione a Genova, ma al primo posto nei suoi pensieri restava la foresta. Nel 1885 pubblicò a Piacenza un poemetto ispirato a una leggenda indigena e tradusse dal portoghese un’opera romantica di Gonçalves Magalhães di ambientazione amazzonica. Tra le nebbie padane concepì il progetto di scoprire le sorgenti dell’Orinoco, per tornare alla sua amata selva negli anni in cui i suoi coetanei erano inviati in Africa per la guerra italo-abissina e gli emigranti si imbarcavano per le Americhe.
Grande fu la delusione di Stradelli quando nel 1887, dopo essere stato ricevuto a Caracas dal presidente del Venezuela Guzmán Blanco, apprese che la meta era stata raggiunta l’anno prima dal francese Chaffanjon. Convinto (a ragione) che il francese avesse solo raggiunto un punto già scoperto da altri esploratori, decise di tentare lo stesso la traversata sino a Manaus, dove arrivò nel febbraio 1888 tra mille difficoltà. L’Amazzonia non era l’Oriente cercato dai primi navigatori o un paradiso dove un giovane romantico potesse soddisfare il suo desiderio di esotismo, ma una terra impervia e ferita, il luogo dell’annichilimento delle culture indigene e insieme della conoscenza di un pensiero “altro”. Nelle relazioni che inviava al Bollettino della Società Geografica Italiana, Stradelli stava sempre dalla parte degli indios. Nel 1890 tornò nel Vaupés per la terza volta e l’anno dopo si spinse sino alle cascate di Yuruparí, lasciando una precisa rilevazione cartografica del territorio, incisive descrizioni delle sue esplorazioni e, soprattutto, il resoconto del mito fondante del popolo tucano, la “Leggenda di Yuruparí”.
L’Amazzonia è acqua, aria, selva, fuoco, rito e nudità. E’ la vita collettiva intorno e dentro la maloca, l’abitazione tradizionale che ospita la famiglia allargata, oggi spesso divisa e ridotta a vivere in casette monofamiliari per la secolare propaganda dei missionari contro la promiscuità. “Soprattutto pei negoziantucoli, che non spogliano mai abbastanza l’indigeno – scriveva Stradelli -, egli non cessa di essere indolente e fannullone, ed io sarò per essi un accanito indianofilo: e sia. L’indiano dinnanzi a costoro ha un gran delitto: non avendo necessità da soddisfare e non sapendo cosa farne di tutti i fondi di magazzino che lo speculatore gli porta e di cui da tanto tempo ha riconosciuto l’inutilità, non li accetta, e cede a malincuore un paniere di farina (…) in cambio di (…) tela, di cui non sa che fare”. L’esploratore piacentino è rispettoso della cultura indigena, basata sullo scambio simbolico e impenetrabile all’economia politica. Raccoglie frecce e amuleti, classifica piante e insetti, disegna mappe, scatta fotografie (ma i clichè sono andati perduti), osserva la natura al microscopio. Gli indios lo accolgono benevolmente, lo chiamano con affetto mayra raira, figlio del grande serpente, il Rio delle Amazzoni, e gli attribuiscono poteri magici, per via dell’apparecchiatura scientifica. Un saggio indiano, Maximiliano José Roberto, suo amico, informatore e guida, raccoglie fra le varie tribù la leggenda dello Yuruparí nelle diverse varianti. Perduto il manoscritto originale di Maximiliano, la trascrizione italiana di Stradelli è oggi l'unica fonte del mito fondante dei popoli tucani, curiosamente simile - secondo alcuni studiosi - al Popol Vuh, la “Bibbia” dei Maya.
Dello Yuruparí Stradelli aveva sentito parlare appena arrivato nel Vaupés. La foresta, raccontavano i missionari, nascondeva segreti demoniaci. L’evangelizzazione della regione iniziò intorno al 1880 grazie a tre francescani. Uno di questi, il toscano Giuseppe Coppi, fu la causa di una rivolta indigena che portò alla cacciata dei missionari per molti anni. Il frate, che Stradelli conobbe a Manaus nel 1884, nell’ottobre dell’anno precedente aveva mostrato nel cortile della missione la maschera di Yuruparí usata per le cerimonie sacre, di cui era venuto in possesso, e la cui vista era proibita alle donne e ai bambini, pena la morte. Coppi voleva “togliere a quelle genti il principale errore delle loro credenze stravaganti”. Riteneva che Yuruparí fosse la personificazione del diavolo, mentre per Stradelli il frate era semplicemente “prevenuto” nei confronti di “tutto ciò che usciva dall’orbita cristiana”. Il gesto di Coppi provocò il panico: le donne fuggirono terrorizzate, gli uomini assalirono la chiesa e nel trambusto gli sciamani soffiavano sui presenti per scacciare la nefasta influenza dei bianchi. I missionari salvarono la pelle a fatica. Di qui l’interesse di Stradelli per la festa misteriosa delle maschere e dei flauti di palma, che con le sue musiche ancestrali e i suoi “cibi dell’anima” (coca, tabacco e la liana allucinogena dello yagé) costituisce, invece, una tappa fondamentale del racconto mitico della creazione dei popoli tucani. Il rito fa riferimento al viaggio dell’anaconda ancestrale, una sorta di Odissea amazzonica che si snoda lungo l’asse fluviale del pianeta, da est a ovest, dalla foce del Rio delle Amazzoni – radice del mondo – alle cateratte di Yuruparí.
Sulla scia di Stradelli, Danilo Manera compie un avventuroso percorso alla radice del mito, naviga sulle acque color caffé tra le pioggerelline tropicali e l’incendio dei tramonti, sfiorando i guerriglieri delle FARC spalleggiati dai narcotrafficanti. Vive tra gli indigeni, ne ascolta i racconti e assiste a una cerimonia di Yuruparí. “La trance da allucinogeni – spiega Manera – è un apprendistato al controllo della donna, che dà vertigine, eccita, debilita”. Il rito con le sue allucinazioni permette agli indigeni di danzare, suonare i flauti sacri, entrare in contatto con gli antenati, riconoscere i personaggi del mito. Alla fine, osserva Manera, lo Yuruparí appare come una cerimonia maschile che serve a trasmettere usi e saperi, e l’essere sovrannaturale da cui prende il nome non è che un “eroe legislatore, protagonista di una saga amazzonica e maestro di costumi ritualizzati”.
Nel 1893 Stradelli si naturalizzò brasiliano e, dovendo in qualche modo campare, prese a fare l’avvocato a Manaus. Due anni dopo diventò magistrato. Nel 1897 tornò in Italia per proporre all’industriale Pirelli di costituire una compagnia italo-brasiliana nel settore della gomma, ma ne ottenne un rifiuto e fece perciò rientro in Amazzonia. Nominato giudice presso il tribunale di Tefé, andò a vivere da solo in una casetta su un’altura per lavorare senza distrazioni “a una sorta di enciclopedia del mondo amazzonico”, scrive Manera, ossia a un ponderoso vocabolario portoghese-nheêngatú in cui raccoglie anche usi, costumi e credenze di alcune tribù avvicinate nei suoi viaggi. L’opera uscirà postuma nel 1929 a Rio de Janeiro sulla “Revista do Instituto Histórico Geográfico Brasileiro”. Non avendo trovato al momento un editore, il dubbio di aver passato anni a fare una cosa inutile assillò il conte Ermanno nel periodo finale della su vita, che fu triste e solitario. Ammalato e stanco, si lasciò convincere dal fratello gesuita a tornare in Italia. Ma alla visita medica a Manaus gli venne diagnosticata la lebbra. Concluse così i suoi giorni, il 24 marzo 1926, in un lebbrosario presso la capitale amazzonica, in completa solitudine e povertà, circondato solo da libri, mappe, manoscritti e ricordi del suo splendido viaggio nel mondo “altro”, dove gli sciamani volano con i giaguari e la Via Lattea è il fiume di stelle che scorre dentro di noi.
La Leggenda di Yuruparí di Ermanno Stradelli è pubblicata in appendice al volume di Danilo Manera Yuruparí. I flauti dell’anaconda celeste (Feltrinelli Traveller, Milano, 1999). Da segnalare anche la bella edizione fotografica del testo di Manera, a cura dello stesso autore e del fotografo Graziano Bartolini, Vaupés. Il fiume di stelle e la palma della musica (Mario Riciputi & Marisa Zattini editori,Cesena, 1999).
Fonte: Materiale prodotto all'interno del progetto culturale "Casa della memoria dell'emigrazione dell'Emilia-Romagna" promosso dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo e realizzato in seguito alla richiesta dei giovani corregionali nella Conferenza di Buenos Aires del 2007.
Il terzo fascicolo della collana “Immagini e parole dall'Emilia-Romagna”, – nata dalla collaborazione tra la Consulta degli Emiliano-Romagnoli nel mondo, l’Istituto per i beni culturali, il Servizio comunicazione, educazione alla sostenibilità e strumenti di partecipazione e l’Agenzia di informazione e comunicazione della Regione – dal titolo "In cerca dell'altrove: storie di emiliano-romagnoli nel mondo" racconta con testi e immagini ad acquerello le storie di alcuni dei nostri conterranei che, in un passato più o meno recente, sono andati per il mondo a cercare fortuna e avventura, o semplicemente una vita diversa.
Scopri anche gli altri volumi della Collana “Immagini e parole dall'Emilia-Romagna”
Vol.1 "Nove passi nella storia. L'Emilia-Romagna si racconta"
Vol.2 "Il mondo in un paese. Luoghi e personaggi dell'Emilia-Romagna"