Pensando a cosa potrei scrivere come primo articolo su “Ponti”, sono arrivato alla conclusione che il miglior modo sarebbe stato quello di parlare d’una persona che rappresentasse in certo modo questo spazio che proverà a fondere il sentimento d’appartenenza alla cultura italiana e a quella peruviana, e la scelta dell’arte (specificamente il teatro) come un modo di vita. Ho subito pensato ad Attilia Boschetti, riconosciuta attrice emiliano-romagnola che da anni lavora nel mondo teatrale di Lima.
La prima volta che ho saputo di lei è stato già diversi anni fa quando, iniziando i miei studi nel fantastico mondo teatrale, un giorno mi si avvicinò mio padre che, con evidente orgoglio romagnolo, mi disse: «So d’una attrice romagnola che abita a Lima!». Sebbene in quel periodo non l’abbia incontrata personalmente, col tempo scoprii che non eravamo poi così lontani; sebbene il mondo teatrale di Lima sia grande, infine non lo è poi tanto. E’ stato così che anni dopo, con lo scopo di scrivere questo testo, e anche grazie all’aiuto del mio amico Carlos Tolentino, coniuge della signora Boschetti, lei ed io ci siamo incontrati. Abbiamo parlato del teatro, dell’Emilia-Romagna, della nostalgia della piadina romagnola e soprattutto del suo modo di essere, di sentire, di trasmettere e di avere nel propio cuore piccole parti dell’Italia, il Perù e il mondo.
Attilia, nata a Savignano sul Rubicone (nella provincia di Forlì-Cesena) dove ha vissuto fino ai suoi dieci anni insieme alla sua famiglia per poi trasferirsi a Bologna, mi ha raccontato che fin da piccolina era stata segnalata dalle sue maestre come una futura attrice. «Mi piaceva imitare e mi facevano recitare le poesie. Di quei tempi ho una foto in bianco e nero di quando una volta vennero la Rai e la radio a Savignano per intervistare i bambini a scuola e io fui l’incaricata di recitare. Erano gli anni 50’. Da lì, facessi la scuola che facessi (ho fatto le magistrali), alla fine io dovevo fare l’attrice.»
Già adolescente e appena diplomata, Attilia ha fatto l’esame per il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, una delle scuole più importanti dell’epoca e una delle più difficili a cui accedere ancora adesso. «Ricordo che mi presentai da sola, ero proprio una provinciana ingenua, non mi preparai con nessuno, una cosa pazzesca!, avevo 18 anni e recitai “Questo amore” di Jacques Prevert e un pezzo di “Così è (se vi pare)” di Luigi Pirandello, un monologo d’una donna sofferente, di cui io a quell’ etá non avevo la minima esperienza di vita. Ma forse, una certa intuizione e sensibilitá dovevo averne.»
Al Centro Sperimentale vi rimase un anno. È lì dove ha conosciuto il suo primo marito, un peruviano che studiava regia, e con cui ha avuto tre figli. «Con lui feci l’ultimo cortometraggio per il diploma e l’anno dopo ho persino ottenuto una borsa di studio. Però non l’ho presa perché sono venuta a vivere in Perù. È stata una decisione dettata dal desiderio d’avventura, di scoprire il mondo. In quel momento in Perù si faceva poco teatro e si stava iniziando col cinema. Volevamo diventare come Fellini e la Masina.» E lo pensavano davvero, soprattutto Attilia che ha un “qualcosa” in certe situazioni, nella forma d’esprimersi, in quel bel senso d’ingenuità che hanno sia lei che Giulietta Masina. «Il personaggio del cortometraggio che facemmo al Centro Sperimentale, richiamava molto Giulietta Masina. Molti anni dopo, quando il mio terzo figlio è diventato attore e regista, per il suo primo cortometraggio mi ha dato un personaggio che richiama in qualche modo lo stile di Giulietta, senza sapere che suo padre aveva giá fatto qualcosa di simile.»
Quando Attilia arrivò in Perù, era il ‘67. Cercò subito di continuare a studiare recitazione perché dentro di sé sentiva questo grande fermento, ma il matrimonio e la maternitá l’ allontanarono in un primo momento dal suo progetto di vita. Quando si separò, iniziò a studiare psicologia all’Università San Marcos di Lima, cercando di inserirsi in gruppi di teatro e continuare a fare delle esperienze in quell’ambito. Finchè un giorno prese un’ iniziativa che le cambió la vita e la mise finalmente sulla sua strada: si presentó da un riconosciuto regista teatrale peruviano-argentino Osvaldo Cattone, gli raccontò di lei, e lui la scelse per interpretare un personaggio importante nella sua prossima commedia.Da lí sono arrivate per lei la TV, il teatro e il cinema, riuscendo a vivere del mestiere. «Appena arrivata a Lima, mi sentivo un pó fuori posto, qui il 68’ non è mai arrivato, ma mi sono adattata e poco a poco mi sono innamorata di questo paese. Per fortuna mi adatto facilmente ai cambiamenti, agli spazi, alla gente ed ai paesi che conosco. Sono una che ha lo zainetto sempre sotto il letto, pronta a partire per nuove esperienze. E cosí posso certo riconoscere che sono italiana, con qualcosa di romagnolo nel sangue, ma anche peruviana e di tutto il mondo, dato che assimilo con facilita le lingue e i costumi dei paesi che ho frequentato.» Negli anni ’90 insieme con il suo attuale marito, riconosciuto regista peruviano, scelsero di fare una esperienza italiana e si trasferirono a Perugia con la piccola figlia di entrambi. «Carlos, ci è rimasto dieci anni. Per me invece mancava il mio lavoro, e non sono riuscita ad inserirmi come attrice, solo feci qualcosa di Teatro. Cosí tornavo sempre in Perù a fare le “telenovele”, perché avevo lavoro e mi sentivo piú a mio agio.» Nel 2000 tutta la famiglia è tornata ad abitare a Lima.
Attilia, gentilmente, mi ha parlato anche di uno dei suoi ultimi progetti teatrali, che lei ha già presentato in diversi luoghi a Lima. Si tratta di “La golondrina”, una commedia di Guillem Clua, un giovane e famoso drammaturgo catalano. «È una storia ispirata all’ attacco terrorista avvenuto a Orlando, negli Stati Uniti, in giugno del 2016. Una storia importantissima ed essenziale da realizzare e raccontare. Siamo solo due attori: un ragazzo ed io. La stiamo preparando per conto nostro, le prove le facciamo in casa, e la regia è di Carlos. È una proposta minimalista e trasportabile, usiamo uno spazio di due metri per due. Vogliamo che quest’opera arrivi dappertutto, è una proposta che si può fare anche nel salotto di chi ci vuole in casa. E¨importante trasmettere questa storia, che fa pensare, rimuove le coscienze, aprire la visione personale del mondo. L’ignoranza è pericolosa ed il teatro è un mezzo che ti permette di crescere, di cambiare il tuo punto di vista.»
Ricordando qualcosa della sua Italia, ha ammesso sorridendo che forse una delle cose che le manca di piú dell’Emilia-Romagna è la campagna, le dolci colline e la piadina, anche se ogni tanto (meno male!) se la prepara in casa grazie alla piastra che si è portata a Lima, dopo uno dei suoi viaggi in visita a sua madre. «Mi mancano i sapori, gli odori e gli spazi. Il mio senso d’appartenenza è piú legato all’infanzia, con i ricordi che ti legano a quel paese. Seguo la Rai in televisione cosí mi mantengo in contatto con quello che succede in Italia e approfitto dei programmi che descrivono le bellezze del mio paese, naturali, storiche, artistiche e architettoniche. L’Italia è straordinaria. Vorrei conoscerla tutta nei minimi dettagli. Ma anche il Perú è uno straordinario paese, che ho avuto l’ occasione di conoscere abbastanza bene e ne sono sempre affascinata. Con quella stessa curiosità e fascino, vorrei conoscere tante altre parti del mondo.»
Attilia, per i suoi ricordi d’ infanzia, si sente molto legata al campo e all’odore della terra bagnata. «Da piccola ho mangiato le uova appena fatte dalle galline. Sono quelle le piccole cose che hanno un significato. Mi piacciono questi ricordi. Adesso vorrei mangiare la piadina col prosciutto... o con le erbe... le erbe di campagna, una mescolanza di erbette che mia mamma raccoglieva nel sentiero e che si facevano saltare sulla padella con un po’ d’olio e aglio. C’è una trattoria a Savignano dove andavo sempre con mio padre, la Trattoria dell’Autista, dove fanno da mangiare come a casa. Ci ho portato tutti i miei figli che hanno ereditato il mio gusto per queste cose, gli odori e i sapori, che cerco di mantenere vivi anche qui in Perú. Ho anche un nipote, figlio della mi prima figlia Angelica, che ora studia cucina. E vuole andare a perfezionarsi in Italia per conoscere nel posto la vera cucina mediterranea. L’altro giorno ha persino portato come esame a scuola la pasta ripiena, i tortelloni. Hai capito? Questo è il legame che sono riuscita a trasmettere con l’ Italia e l’ Emilia Romagna.»
Finalmente, e non poteva essere da meno, mi ha parlato anche del suo modo di sentire e di fare teatro. Di questa capacità di trasmettere emozioni a chi la vede e l’ ascolta, un dono che sente di aver avuto fin da bambina. «Quel che riconosco ora è che c’è qualcosa in me che mi permette d’avvicinarmi a un sentimento, a una emozione, che appartiene a un personaggio ma che è comune all’ essere umano, e di trasmetterlo al pubblico. È un dono, che mi sorge spontaneo, quasi come un’ ispirazione. Una cosa della quale posso solo esserne grata.Con gli anni, l’ esperienza di vita e la pratica teatrale, questo dono si è arricchito e quando rappresento un personaggio cerco sempre che sia “vero”. Fin da quando ne sono stata consapevole ho saputo che il mondo della recitazione, del teatro, era il mio posto, che qui devo stare e qui devo morire. Recitare, creare un personaggio vivo è per me come la savia dell’albero. Faccio l’ attrice perché il mio posto è sulla scena, non per farmi vedere o applaudire, ma perché devo comunicare, trasmettere, raccontare dell’ essere e della condizione umana.»
Finendo questa piccola e bella chiaccherata, Attilia ed io ci siamo salutati con la certezza che ci ritroveremo presto.
Sperando che questo mio primo articolo sia di grata lettura, non posso fare altro che esprimere il mio ringraziamento ad Attilia per aver condiviso con me parte della sua vita e il suo sentire. Per me, piccolo limeño-emiliano-romagnolo-ancashino che abita a Cusco, è una gioia poter rileggere queste parole che, a modo loro, sono anche mie, avendomi riportato alle memorie del mio babbo, di Forlì, e di mia nonna che era di Cesena. Finisco di scrivere le ultime righe sostenendo che, grazie a quest’intervista, ho capito che forse uno dei modi più belli di conoscere il mondo è quello di conoscere anche la propia terra.