La campagna padana come non l’avete mai vista. O come l’avete solo sognata. Con i pioppi, i casolari e i fossi immersi nelle ombre notturne. Con la ragazza col cappotto rosso sul ciglio della strada, nella foschia invernale. E un’altra ragazza che fluttua nuda nella piazza del paese piena di presenze animali. A regalarci queste visioni è un pittore che ha portato il Po a Berlino, dove è arrivato come operaio, come emigrante.
“Da ragazzo non ho mai pensato di diventare artista di professione, il mio sogno era di fare il calciatore”,
racconta Adelchi Riccardo Mantovani, definito dal critico Vittorio Sgarbi un “Raffaello rispetto a Ligabue” che è il più noto dei pittori “per caso”.
Fu proprio Sgarbi a scoprire questo suo concittadino, nato a Ro Ferrarese nel 1942, figlio della bidella della scuola elementare, e a organizzargli la prima importante mostra a Berlino. Rimasto orfano del padre, Adelchi Mantovani fu affidato alle suore dell’orfanotrofio di Ferrara dal ’46 al ’52 e poi mandato in collegio, sempre presso le suore, a seguire i corsi professionali per imparare il mestiere di tornitore. Dopo un periodo di lavoro a Ferrara, nel 1964 si trasferisce in Germania e dal ’66 è a Berlino, dove entra in fabbrica rimanendovi ininterrottamente fino al 1979. Il clima culturale di Berlino lo aiuta a riscoprire l’attitudine al disegno che si era manifestata ai tempi del collegio.
“Quando ero dalle suore, mi procuravo le matite, strappavo le due pagine interne dai quaderni di scuola e facevo dei quadernini piccoli che riempivo tutti di disegni. Questo è stato il mio inizio”.
Nella metropoli tedesca Adelchi Mantovani frequenta le scuole serali di pittura, i corsi di nudo, conosce gli artisti e perfeziona la sua già straordinaria tecnica nata dai disegni sui quaderni strappati alle suore. Nel 1979, dopo vent’anni di fabbrica, smette i panni dell’operaio per indossare quelli di pittore. La sua fortuna è un articolo di Sgarbi su L’Europeo che incuriosisce un collezionista miliardario, Orazio Bagnasco, il quale acquista tutta la sua produzione iniziale, una quarantina di quadri, perché Adelchi non è un autore prolifico. La sua immaginazione predilige i tempi lunghi, ha bisogno di sedimentare, di depositarsi sul fondo dei ricordi, di definire bene i contorni di una pittura che nasce in stretto rapporto col paesaggio d’infanzia, fatto di argini, di ponti di barche, di binari dei treni nella pianura, del mito di Fetonte che cade nel Po e lo contorna di pioppi.
E’ “la dolcezza della lontananza” che esprime il legame di Adelchi Mantovani con la propria terra, dice Laura Gavioli, che ha curato la mostra dell’artista alla Galleria del Carbone di Ferrara, nel settembre 2006. C’è sempre, dunque, il mito del Po, “con i suoi percorsi ad ampie volute e le sue misteriose isole nel mezzo”: un paesaggio mentale che – secondo Gavioli -sembra rasserenare l’animo dell’artista, dopo le inquietudini dei primi quadri che non riuscivano a liberare tutte le emozioni. Quelle emozioni forse represse negli anni del collegio e della fabbrica, e che venivano annotate nei taccuini per diventare brevi racconti: come quello in cui Adelchi, durante la messa, guardando le pitture in chiesa tra l’odore di incenso e di candele, si abbandona a fantasie sulle giovani martiri cristiane raffigurate seminude. E davvero ci strega, il suo realismo onirico: questo surrealismo padano che affonda le radici nella pittura ferrarese del Quattrocento, per poi librarsi in volo nei paraggi di Delvaux e Magritte.
Gli echi surrealisti enfatizzano un’immaginazione eccentrica che in certe opere sa di burla adolescenziale, di scherzo da prete. Ecco allora queste nudità soavi che popolano le campagne, fraternizzano con i frati in paesaggi mitologici (La conversione di Bacco, 1998), entrano negli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara (Zane in Schifanoia, 1997).
Ecco Icaro che precipita nel Delta del Po (Icaro, 1990) e lo spazio concentrazionario in cui la preghiera di disciplinati scolaretti è tanto assurda da diventare idolatra (Il rosario, 1976). Spesso nei suoi quadri mutano le proporzioni, e sembra di entrare nel paese di Gulliver; talvolta sono gli animali ad essere enormi in ambienti realistici. Le favole, i simboli, le allegorie tolgono realtà alla descrizione minuziosa, all’esattezza del dettaglio. Quando Adelchi Mantovani intinge la città nel blu notte di sognanti allarmismi, di movimenti sospesi, di frenetiche fughe (La notte, 1990), ci sembra di capire come lavora l’inconscio nel riposo notturno, cosa abbiamo intravisto in sogno, quali sono le sfumature della notte.
Molto noto in Germania ma non altrettanto in Italia, Adelchi Mantovani è la testimonianza vivente che “le arti non muoiono mai, perché sono nate con gli uomini e le tecniche”, come afferma il filosofo Jean-Luc Nancy. Ci sarà sempre, infatti, qualcuno che, anche senza aver studiato, saprà disegnare e avrà il talento di trasferire in un dipinto la tensione e l’eccitazione che gli trasmettono le proprie Muse. Lavorerà con l’immaginazione, anche se si trova in fabbrica dietro un tornio, pensando a come fissare le proprie visioni su tela, a come nutrirle di colori, a come alimentarle con i ricordi – la sera, dopo il lavoro, quando basta chiudere gli occhi e le acque limacciose del Po scivolano su quelle della Sprea, e al parco del Tiergarten si sovrappone il bosco della Mesola con i suoi lecci, ontani, pioppi bianchi. Là, tra canali e golene, lagune e valli da pesca, in uno sperduto casolare si accende una luce. E’ la stanza di Adelchi a Berlino.
Fonte: Materiale prodotto all'interno del progetto culturale "Casa della memoria dell'emigrazione dell'Emilia-Romagna" promosso dalla Consulta degli emiliano-romagnoli nel mondo e realizzato in seguito alla richiesta dei giovani corregionali nella Conferenza di Buenos Aires del 2007.